Eusebio vs Di Francesco: la gogna mediatica, le certezze disperse, la società...

Eusebio vs Di Francesco: la gogna mediatica, le certezze disperse, la società (?) e un mese per tornare in sella alla Roma

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FOCUS CGR – Eccoci qui, di nuovo. Un ritorno al passato, una macchina del tempo che ripropone pericolosi salti indietro, in realtà oggettivamente già vissute, chiamatelo dejavù, chiamatela ricerca di se stessi. Una volta il contorno era intriso da “voglia di stringersi un po’“, nei momenti delicati, con critiche più o meno legittime, oggi è “si salvi chi può”, spari ad alzo zero, processi, banchetti sulle macerie, sentenze e via, con un colpo di spugna, ‘avanti un altro’ Signore e Signori. Bonolis sarebbe divertito da un format così, se non lo conducesse quotidianamente, ma quello è un quiz, un programma strutturalmente condito da satira, personaggi grotteschi, per intrattenere. Il calcio è spettacolo, intrattenimento ma la Roma per tutti è qualcosa di più, per molti è addirittura ragione di vita, compagna di avventure, gioie, dolori, percorsi singoli e collettivi, il che potrebbe giustificare l’eccessiva esasperazione ambientale, inasprita da mille variabili che meriterebbero centinaia di approfondimenti.

CRITICITA’ E SVOLTE – In questa enorme centrifuga è finito Eusebio Di Francesco, un uomo che in questi 14 mesi alla guida della Roma ha assunto vesti, nomignoli e soprattutto scalato vette altissime, quasi impossibili da raggiungere per poi, a distanza di poche settimane, ricadere a valle in più di un’occasione, come in un perverso gioco dell’oca (refrain che ritorna da anni in casa Roma). Destino baro quello dell’allenatore, incredibilmente complesso se dietro alla tua panchina c’è il simbolo giallorosso. Caos, crisi, giocattoli rotti, velleità accantonate, ambizioni calpestate. La Roma genera questo, nel bene e nel male, Eusebio lo sa, conosceva questo ambiente, doveva esser preparato. Un anno fa di questi tempi, dopo l’amara sconfitta contro l’Inter del grande ex dagli occhi spiritati, il processo mediatico durato una quindicina di giorni aveva generato nella testa di (quasi) tutti il colpevole da immolare. Fondi di giornale, editoriali più o meno illuminati, opinioni radiofoniche, ‘dissocial network’ un fuoco di fila pronto ad abbattere la vittima.“E’ il destino degli allenatori, sono sempre i primi a pagare quando le cose non vanne bene”, verità effettiva, ma la giustizia dov’è? Un anno fa di questi tempi, dicevamo, Di Francesco dovette superare un primo scoglio: “l’integralista, zemaniano, che non vincerà mai nulla”. Si presentò come un “Di Franceschiano” (nulla a che vedere con il quasi omonimo ordine di frati), per cercare di fissare nella mente di tutti dei concetti chiari, della seria patti chiari e amicizia lunga. Calcio aggressivo, pressing alto, riconquista della palla in una zona X per andare a far male, sovrapposizioni, rapidità d’esecuzione, linea di difesa alta, compattezza, fuorigioco, elementi nel pentolone del mister pescarese che volenti o nolenti, piaccia o non piaccia, hanno dato alla Roma una nuova fisionomia, da perfezionare, da migliorare, ma che le ha permesso di sfiorare una semifinale di Champions. Ci credevano in pochi, forse pure dentro Trigoria, poi un anno fa, sempre di questi tempi, la Roma si rialzò conquistando un punto insperato all’Olimpico contro l’Atletico Madrid. “San Alisson” si disse, ma dopo pochi mesi nella folle nottata post Roma-Barcellona, nessuno ricordava il come di quel pareggio, ma solo il quanto. Un mese (settembre) e mister Di Francesco si prese la Roma, con le sue idee, con il suo 4-3-3, con la voglia di riportare compattezza, unione d’intenti, ambizione e identità romanista. Diverse furono le vittorie consecutive in campionato, la testa del girone di ferro in Champions, gol fatti non tantissimi ma giusti, pochi, pochissimi quelli subiti, Dzeko dai malumori alle 8 reti consecutive. Ogni tanto qualche inciampo, fisiologico all’inizio di un progetto tecnico, ma un’identità chiara, evidente, da migliorare nella qualità del gioco e soprattutto una squadra capace sempre di rialzarsi e lottare fino alla fine su tutti i campi. Doveva essere un punto di partenza, un sistema generale sul quale innestare forze nuove, qualità diverse, più funzionali. Il mercato estivo invece ha tolto qualcosa, quanto meno nello spirito e nella personalità di un gruppo per metà stravolto tra entrate e uscite che nelle prime apparizioni stagionali è sembrato un branco di anime in pena, senza un perchè e senza un domani. In mezzo però, il grande e sportivamente grave elemento di imputazione per il tecnico: 50 giorni di lavoro tra il tanto decantato e sponsorizzato ritiro di Trigoria, nelle nuovissime e lussureggianti strutture di casa e la solita (deleteria a parer di chi scrive) tournèe Usa, con quasi tutta la rosa a disposizione. Risultato? Squadra azzerata nelle idee, nel gioco, nell’atteggiamento tattico, nella preparazione fisica. E’ immaginabile pensare solo lontanamente che la Roma abbia scherzato invece di allenarsi duramente? Ma cosa realmente è stato provato nel corso di un mese e mezzo di preparazione che poi in campo non si riesce a vedere? I moduli, le strategie, i singoli da scegliere, tanta, troppa confusione in seno ad una squadra che ha smarrito anche quei piccoli aspetti tattici che sembravano ormai acquisiti nel meccanismo generale.

Ora, il punto è questo: nel calcio si sa come vanno certe cose, gli allenatori vengono giudicati per i risultati e i 4 punti finora conquistati sono un magro bottino, anche per una Roma a detta di molti decisamente ridimensionata dall’ultimo mercato estivo condotto da Monchi, ma possibile che sia così semplice? Esonerare un tecnico – come in moltissimi oggi richiedono a gran voce – dopo 3 giornate e ripartire da chi? Da Antonio Conte? Un fenomeno senza dubbio, ma che ha fatto a cazzotti (metaforici) con un signore Russo che a sua volta ha speso oltre 350 milioni di euro in due anni per costruirgli una squadra vincente e che qui, inevitabilmente, troverebbe un progetto societario decisamente lontano dalle sue aspirazioni di grandezza; Vincenzo Montella, che arriva da tre esoneri consecutivi e che è apparso decisamente involuti rispetto alla sua partenza romanista? Claudio Ranieri alla soglia dei settant’anni? Ma soprattutto, chi sarebbe realmente disposto a venire qui, sottoporsi a questo stillicidio, dopo sette allenatori negli ultimi 8 anni? Dunque – ed ecco il gioco dell’oca che ritorna – la scelta ad oggi è una sola: fiducia ad Eusebio, che ha commesso errori, che è apparso contraddittorio nelle scelte, nelle dichiarazioni, nei 4 moduli cambiati in 270 minuti, nell’incapacità di dare subito una fisionomia alla sua Roma 2.0. Una fiducia (a termine leggasi risultati), che deve essere però supportata da tutta la società, da Pallotta a Baldini, da Totti a Monchi, un quadrato unico cementato intorno al tecnico, per chiarire alla squadra le idee e riprendere il cammino da scelte evidenti, chiare, semplici sia sul piano tecnico-tattico, sia sul piano delle gerarchie interne. Con l’auspicio che sia un settembre 2018, identico a quello 2017 e che la Roma riparta, perchè è vero che peggio di così è quasi impossibile fare ma a volte al peggio non c’è mai fine…

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