Parnasi lo “sviluppatore” tra mazzette e affari di carta

Parnasi lo “sviluppatore” tra mazzette e affari di carta

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LA REPUBBLICA (D. AUTIERI) – Lo “sviluppatore” e il “faccendiere”. Luca Parnasi e Luigi Bisignani. Ancora una volta un passaggio chiave dell’operazione stadio passa attraverso le chiacchiere intime tra questi due uomini. «L’operazione dello stadio — spiega Parnasi — noi la stiamo cedendo a Dea Capital». L’informazione sintetizza in poche parole il senso e la visione dell’organizzazione criminale stigmatizzata nell’informativa del Nucleo investigativo dei Carabinieri: acquistare il terreno di Tor di Valle dalla Sais, un società in grosse difficoltà finanziarie, a poco più di 40 milioni di euro, versandone — ad oggi — appena 12; oliare per bene gli ingranaggi della politica e della pubblica amministrazione in modo da ottenere tutti i via libera necessari; e infine siglare un accordo non vincolante con la Dea Capital Real Estate sgr (il più grande operatore italiano nella gestione di fondi immobiliari), ottenendo in cambio una possibile entrata di 200 milioni di euro.

Questo il piano elaborato di Luca Parnasi, lo “sviluppatore” che non ha mai cullato l’ambizione di imprimere il suo nome sullo stadio della Roma, limitandosi al ruolo di abile speculatore alla ricerca di una plusvalenza milionaria che solo l’inchiesta della procura di Roma ha evitato. Secondo la ricostruzione del gip l’operazione di vendita dei terreni era «ad una fase conclusiva». E, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «dall’ascolto di alcune comunicazioni emerge che si sta stipulando un accordo non vincolante e nei prossimi mesi è prevista la firma del preliminare». Un preliminare che tuttavia, secondo quando raccontato da Parnasi a Bisignani, richiede prima la soluzione di una questione ancora aperta. «Tu lo sai — spiega l’imprenditore — come mi paga Dea Capital? Mi paga una parte con cassa, e una parte con le quote del vecchio fondo, che era un fondo immobiliare di una iniziativa che ho fatto a Marino. Mi dà 28 milioni di queste quote. E la condizione per cui Caniggia di Dea Capital fa l’operazione è che questo fondo, oggi gestito da loro, passi a un’altra Sgr».
Parnasi fa riferimento a Ecovillage, un progetto immobiliare mai avviato nel comune di Marino e venduto in passato da Parsitalia (società della famiglia Parnasi) proprio alla Dea Capital. Considerato il fallimento di quell’iniziativa, il fondo di real estate chiede che Eurnova riacquisti quei terreni come una delle clausole necessarie per finalizzare l’accordo. E qui Parnasi ha un’altra brillante idea, che condivide con il mentore Luigi Bisignani: non acquistare quei terreni, ma farli acquistare a una serie di fondi, come ad esempio quello della Cassa Forense, guidato da Nunzio Luciano. Dalla poltrona di presidente, Luciano gestisce un patrimonio di 12 miliardi di euro e — secondo Parnasi — potrebbe essere convinto con le solite maniere a investire per acquistare Ecovillage. È la prassi che si ripete e che emerge anche andando a leggere i bilanci delle società riferite a Luca Parnasi, le uniche rimaste in piedi dopo che tutte le vecchie proprietà della famiglia sono confluite nel veicolo Capital Dev per essere vendute sul mercato e coprire così i debiti con la banca Unicredit.
Nelle mani di Parnasi rimangono Eurnova (proprietaria di Tor di Valle) e Capital Holding, la finanziaria che la controlla e che a sua volta è controllata dalla Pentapigna, descritta dalle cronache giudiziarie come una cassa alla quale attingere per soddisfare la fame dei funzionari pubblici. Guardando all’ultimo bilancio depositato, quello del 2016, tanto Eurnova quanto Capital Holding hanno chiuso l’anno in perdita: 724mila euro la prima, 10,5 milioni la seconda. In particolare, la capogruppo Capital Holding è stata capace di accumulare una perdita così consistente a fronte di ricavi irrisori, appena 323mila euro. Non solo: il debito ha già raggiunto i 56 milioni di euro. Discorso analogo per la Pentapigna che, rispetto ad un valore della produzione di 2,8 milioni di euro, ha accumulato debiti per 62 milioni. Numeri che danno l’immagine di società tecnicamente fallite (non esiste alternativa quando il debito è 30 volte superiore ai ricavi), tenute in piedi per un mero interesse economico, quello di un uomo di sistema che avrebbe dovuto diventare cerniera tra la politica e gli affari.

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