«La storia siamo noi»

«La storia siamo noi»

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IL MESSAGGERO – U. TRANI – Pruzzo e Osvaldo, Conti e Totti, Falcao e De Rossi. Simboli per qualità e personalità, ieri come oggi. Il cuore di una squadra sola che batte per la vittoria. L’Hall of Fame, l’iniziativa della società giallorossa, coincide con un periodo delicato di questa stagione appena iniziata. La Roma, però, accoglie i suoi totem a Trigoria alla vigilia della gara con l’Atalanta e basta vederli per capire che i primi a chiedere a Zeman e al suo gruppo di riabilitarsi sono proprio loro.

Il presidente Pallotta fa gli onori di casa e al suo tavolo si accomodano Tancredi, Pruzzo, Conti, Falcao e Aldair, oltre ai dirigenti Baldini e Pannes. Manca solo Cafu. Presenti anche Rocca, Losi, le figlie di Bernardini e Amadei.

«Guarda, è fantastico». Paulo Roberto Falcao lascia Trigoria a metà pomeriggio e torna al centro. Ha in mano il suo telefonino cellulare. Sullo schermo del BlackBerry c’è l’immagine illuminata del Colosseo. «Sembra giorno, ma è venerdì sera. Non avevo sonno e sono andato lì davanti. Dimmi cos’è?». Il refrain di Grazie Roma.

È sempre il Divino e non sta qui per fare il turista anche se sta parlando a meno di cento metri dall’anfiteatro Flavio. «Sono andato a letto alle cinque per smaltire il fuso orario. Così mi sono fermato a guardarlo a lungo. Io questa strada la facevo spesso. Via del Corso, il balcone di Mussolini a Piazza Venezia, l’Altare della Patria e, quando entravo in via dei Fori, sempre lo stesso impatto, lì davanti. Maestoso. Il Colosseo che ti viene incontro come per divorarti. Quante volte sono passato qui. Io ho due città, Porto Alegre e la capitale. Guarda questo sms, è un mio amico brasiliano che mi ha appena invitato per un doppio di tennis. ecco la mia risposta: “Purtroppo…sono a Roma, sorry”. Bello essere qui. Sono stato fortunato. Ho lasciato la primavera e ho trovato l’estate. Resterei, lo sapete. Ma mi aspettano mia moglie Cristina e la piccola Antonia di otto anni. E in più sto cercando squadra. Voglio allenare. Dovevo andare al Palemiras di Marcos Assunçao. Volevano tenermi per due mesi perché a gennaio eleggeranno un nuovo presidente. Ho detto no».

E’ qui perché il passato non si dimentica. Nelle preferenze risulta il migliore, ha staccato gli altri. Sul trono sempre e comunque. Ma c’è qualcosa con lo colpisce del risultato della votazione: «Sarei un ipocrita se fossi stupito di essere in questa squadra. Ma non mi aspettavo l’unanimità. Questo mi riempie di orgoglio, perché mi fa sentire romanista per la vita. Io mi sento un regista e questa maglia è stata indossata da campioni come Cordova, Giannini, Emerson, Cerezo e Prohaska, giocatori che più o meno giocavano nel mio ruolo. La gente è stata sempre affettuosa con me, ma stavolta, a quanto pare, ho messo d’accordo vecchi e giovani. Anche qualche bambino. So che anche chi non mi ha visto mai giocare mi vuole un gran bene».

Racconta un episodio di cinque anni fa. «Mi hanno inseguito due ventenni, dopo la celebrazione per gli ottant’anni del club. Io uscivo in macchina dall’Olimpico e sono stato pedinato. Credevo che fosse un paparazzo. Sono scesi due ventenni, ad un semaforo e mi sono quasi impaurito. Loro, però, volevano autografo e foto. Io gli ho detto: “Quando abbiamo vinto lo scudetto, voi nemmeno eravate nati”. Erano emozionati, sapevano tutto di me».

Paulo Roberto sistema nella sua mente gli undici dell’Hall of fame. «Leggevo prima i nostri nomi: siamo proprio una grande squadra. Tre brasiliani. E mezzo, cioè Bruno. Capitan Losi e il mito Bernardini. C’è il top. Siamo in sei del secondo scudetto. Noi degli anni Ottanta, davvero un bel gruppo. Non so se il più forte, anche nel duemilauno erano bravi. Ma guardate la storia, avanti e dopo Cristo. La Roma, dopo l’Ottanta, ha avuto un suo ruolo. Prima era leggenda, poi improvvisamente ispettata e temuta. Con Liedholm, con Rocca, Di Bartolomei, Conti, Tancredi, Il Bomber, io e Toninho, è diventata squadra. Potevamo vincere di più. Io negli spogliatoi di Avellino, con la Juve collegata dallo studio Rai di Milano, dissi in diretta e davanti ai campioni d’Italia inviatati alla Domenica sportiva che eravamo stati noi a meritare quel titolo. Era l’anno del gol di Turone. Sì, gol».

Adesso trova i bostoniani e Zeman. «La scoietà è solida. E l’’allenatore mi piace perché va all’attacco. Difendersi è più facile. Per questo serve pazienza. I giocatori devono metabolizzare il suo calcio. Io sarei stato alla grande da regista nel suo quattro-tre-tre. Avrei fatto il Pirlo della Roma. Ho visto solo lunedì la partita con la Juve. al momento è più forte. Conosco Castan. Bravo e attento. Ma la differenza la fa sempre Totti»

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