Doni: “Solo in carcere ho capito tutto, gli altri corrotti confessino prima”

Doni: “Solo in carcere ho capito tutto, gli altri corrotti confessino prima”

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LA REPUBBLICA – G. FOSCHINI/M. MENSURATI – Nomina  l’Atalanta e si commuove. Tira la testa indietro di scatto, per trattenere le lacrime. È l’orgoglio. Poi torna a sorridere, beve un sorso di caffè, il secondo della mattina, alza la voce, e cerca di spiegarsi. È un uomo a disagio, Cristiano Doni. Perché ha capito che la sua nuova vita non prevede più un pallone tra i piedi 24 ore al giorno. E non c’è niente di peggio per un calciatore. La verità è che ha buttato via tutto. “E la cosa peggiore – dice – è che ancora non ho capito perché l’ho fatto, come è stato possibile. L’unica speranza è che almeno la mia storia serva da lezione agli altri”.

Partiamo da qui. Qual è la morale della storia di Cristiano Doni?
“Non so se ce ne è una. Magari ce ne sono molte. Io spero solo che gli altri calciatori vedano quello che mi è successo e capiscano. Non siano tanto imbecilli e facciano quello che in queste ore sta facendo Masiello. È stato molto coraggioso e, diversamente da me, ha avuto l’intelligenza di denunciare tutto per tempo. Spezzare quell’omertà che sta devastando il calcio”.

Se lei allora si fosse comportato come Masiello fa oggi, cosa avrebbe denunciato?
“Avrei denunciato le mie colpe che sono, ci tengo a dirlo, relative a due soli episodi: Ascoli-Atalanta e Atalanta-Piacenza”.

La partita del portiere Cassano che le dice dove tirare il rigore. Come andò?
“La settimana prima giocavamo contro l’Ascoli e alla vigilia mi dissero che la gara era truccata. Io dissi ok, bene, volevo andare in A, era perfetto. Poi invece in campo mi accorsi che non era vero e infatti pareggiammo (ma mi rendo conto che il risultato, non cambia le cose). La settimana dopo c’era il Piacenza, e mi dissero nuovamente che la partita era truccata. Io non ci credevo, poi invece in campo mi accorsi che era vero. Tanto che Cassano al momento di calciare il rigore mi disse “tira centrale che io mi tuffo””.

Lui nega.
“Andò esattamente così. Tanto che io vissi anche alcuni momenti di panico, perché non sapevo che anche lui era d’accordo e ogni tanto capita che i portieri avversari cerchino di imbrogliarti… Così quando andai a battere ero davvero incerto se dargli retta o no”.

A proposito di omertà. Raccontiamo una volta per tutte la verità su Atalanta-Pistoiese del 2000? Giacomo Randazzo, ex dirigente dell’Atalanta, racconta che quella partita fu una combine: un accordo nato per scherzo al ristorante durante una cena (oltre a Doni, erano presenti tra gli altri l’attuale allenatore del Milan Allegri, Siviglia e Zauri) e poi davvero attuato in campo. Lei cosa dice?
“Che sì, è così non posso continuare a dire diversamente. È un episodio lontano nel tempo, ma se qualcuno mi vorrà chiedere spiegazioni gliene darò. Ci indagarono poi ci assolsero, molti ancora oggi credono che la mia esultanza “a testa alta” sia nata da quell’episodio. Invece no: era il frutto di uno scherzo con Comandini, un gioco che si faceva da ragazzini quando uno alzava la testa e diceva “ritiro” dopo aver insultato qualcun altro”.

Le sue responsabilità finiscono qui? O ci sono altri episodi?
“Ho commesso due errori, gravi, ma solo questi due errori”.

Circolano voci diverse, dicono persino che lei avrebbe fatto retrocedere apposta l’Atalanta per favorire il suo “amico” Percassi nell’acquisto della società.
“È una bestemmia. Io per la maglia dell’Atalanta ho dato il sangue. E anche gli errori che ho commesso li ho commessi perché volevo riportare l’Atalanta in A. Per me era un’ossessione. Avrei fatto qualsiasi cosa. Anzi, ho fatto qualsiasi cosa. Ho tradito lo sport”.

Quanti sono i calciatori che “tradiscono lo sport”?
“Molti, troppi. In B più che in A perché a parte 3 o 4 club, gli altri pagano poco, anche 20mila euro l’anno. E così i calciatori sono più corruttibili. Però in generale sono molti, sì, è un problema culturale”.

Suona tanto come una scusa. Può spiegarlo questo “problema culturale”?
“Da noi c’è l’abitudine di non infierire sull’avversario, di non mandare in B un collega in pericolo se non c’è un motivo di classifica, di mettersi d’accordo. In Spagna ad esempio non è così. Da noi invece capita che in campo ti chiedano il risultato, è capitato anche a me sia di chiedere sia di avere avuto richieste. E su queste abitudini da quando hanno legalizzato le scommesse “campano” tutti: gli ingenui, gli amici, i balordi, i mafiosi. E il problema assume altre proporzioni. Ma il punto di partenza è un difetto culturale che non riguarda solo i calciatori, ma anche gli altri protagonisti, gli arbitri che vedono tutto e non fanno nulla, il quarto uomo, gli osservatori della Figc, i giornalisti… Perché non è mai successo nulla tutte le volte che un giocatore è stato inseguito negli spogliatoi dagli avversari dopo un risultato “inatteso”?”.

È un difetto culturale anche non capire che tradire lo sport e tradire l’Atlanta è la stessa cosa.
“Lo so. Ma sarei un’ipocrita a dirle che non considero un’attenuante aver sbagliato pensando di favorire la mia squadra”.

Ecco, infatti, non è un’attenuante.
“E io sono pentito di quello che ho fatto. Anche perché sono finito in carcere. E il carcere aiuta molto a capire i propri errori”.

Un campione in carcere. Che effetto fa?
“Orrendo. Sono venuti a prendermi all’alba. A proposito non è vero che sono scappato. Non è vero che pensavo fossero i ladri. Tutte minchiate. Pensavo fosse una semplice perquisizione. Poi invece mi hanno detto che mi portavano in questura a Bergamo in stato di fermo. E di lì sono andato in carcere, a Cremona. Per strada continuavo a pensare a mia figlia a scuola, era sempre stata orgogliosa di suo papà, il Capitano”. Di nuovo, tira indietro la testa. Poi riprende: “Quando si sono chiusi i cancelli alle mie spalle ho ripensato a tutti i film che avevo visto sul carcere e ho detto tra me e me che “dal vero” era molto peggio. Il carcere era davvero affollato, come dicono in tv, anche se io ho avuto la fortuna di avere una cella singola. Ho preso alla biblioteca Esco a fare due passi, il libro di Fabio Volo e ho cominciato a leggerlo. Ma mi distraevo. Di notte faceva freddo. E io non dormivo. Non dormivo neanche di giorno. Non dormivo mai. Pensavo alla cazzata che avevo fatto. A come era potuto succedere, a mia figlia, a mia moglie, all’Atalanta e non vedevo l’ora di andare dal giudice a raccontare tutto. E da questo punto di vista devo ammettere che sono stati tutti bravi… Il poliziotto che mi ha arrestato, il giudice Guido Salvini, il pm Roberto di Martino, il mio avvocato Salvatore Pino, tutti mi sono stati vicini, sono stati comprensivi e mi hanno permesso di cominciare un percorso che non so dove mi porterà. Ma che dovevo cominciare. E che spero che comincino per tempo tutti i miei colleghi. Mi piacerebbe davvero se finisse l’omertà nel calcio, se quello che è successo a me fosse un punto di svolta per tutti”.

Cosa farà Doni da oggi in poi?
“Non ne ho idea. Prima volevo fare il dirigente dell’Atalanta. Oggi mi accontenterei di riuscire a vivere in pace nella mia città, Bergamo”.

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