La Gazzetta dello Sport (M.Cecchini) – A Roma, nei pressi di Viale Mazzini, c’è un piccolo ristorante frequentato da Maurizio Costanzo. Negli ultimi trent’anni, per questioni di lavoro, il celebre giornalista televisivo vi ha invitato tanti dei personaggi dello spettacolo più famosi d’Italia, molti dei quali tra l’altro radicati nella Capitale. Dalla «A» di Alberto Sordi alla «V» di Vittorio Gassman, tanto per fare due nomi, un rosario di mostri sacri sono passati per quei tavoli. «Ma quando invitai Francesco Totti – ha raccontato Costanzo anni fa – ho assistito a scene mai viste. Dico solo che il proprietario dovette chiudere e chiamare la polizia perché la situazione era fuori controllo». Ecco, per capire il Tottismo forse è il caso di partire da qui. Se negli anni Cinquanta e Sessanta il cinema rappresentava il sogno dell’italiano medio – come «Bellissima» di Luchino Visconti ci ha raccontato – adesso che calcio e tv hanno soppiantato nell’immaginario collettivo la via più facile per la notorietà, Totti è diventato l’icona di un paio di generazioni, il punto di caduta di un tandem di mondi scintillanti. E che tutto questo possa essere ingombrante per chi debba conviverci, in fondo non può sorprendere.
MALATTIA O FILOSOFIA – Tottismo, in fondo, può intendersi in due modi: come malattia («mi dispiace, suo figlio si è ammalato di Tottismo») o come filosofia («il Tomismo non mi appassiona più, ora studio il Tottismo»). Come dimostra la bacheca – importante ma non ricchissima (un Mondiale, un Europeo Under 21, uno scudetto, 2 Coppe Italia e 2 Supercoppe Italiane) – in entrambi i casi si trascende dal calcio giocato per approdare in categorie intellettuali diverse, che hanno come discrimine la fede e il culto della bellezza. Il problema è che, se l’intersezione tra le due scuole di pensiero era facile da trovare quando il capitano della Roma era nel fulgore della sua carriera, adesso le strade cominciano a divergere.
STOP PUPONE – Il problema è serio. Un attore può vincere l’Oscar anche mostrando le rughe, un calciatore icona deve invece essere ineluttabilmente come l’eroe gucciniano, cioè «giovane e bello». E allora, per malati o filosofi, la cosa si complica. E se i primi dimorano soprattutto entro il Grande Raccordo Anulare, gli altri hanno adepti dappertutto. Tutto questo però, dall’esordio in A datato 1993 ad oggi, ha portato a inevitabili effetti collaterali almeno fino a cinque date spartiacque: 2000, 2001, 2003, 2006 e 2007. In attesa di spiegare il perché, c’è da ricordare come nel Paese dei Guelfi e Ghibellini non era difficile che negli anni si creasse uno zoccolo duro di antipatizzanti, che per tante stagioni hanno provato a creare persino un dualismo con un’altra icona del calcio a cavallo tra Secondo e Terzo Millennio, Alessandro Del Piero (peraltro amico di Francesco). Ma se lo juventino è stato l’ennesimo, straordinario frutto di una pianta a fioritura continua, Totti è stato «la mela del ramo alto che invano tentarono di raggiungere», come cantava la poetessa Saffo circa 2600 anni fa. Ovvero, l’albero giallorosso mai ha prodotto (e forse mai più produrrà) una creazione del genere. Quanto è bastato, in quasi un quarto di secolo (23 anni), per consentire ai romanisti di lenire con la bellezza la nostalgia dei trofei. Come dire: «Voi del Nord potete vincere gli scudetti, ma il re del mondo (in certi momenti è stato ad un passo dall’esserlo) lo abbiamo noi». Occhio ai tranelli. Da questo punto di vista, il soprannome di Pupone, nato dalla penna brillante del giornalista Mimmo Ferretti – per gli antipatizzanti è passato in fretta dal rappresentare un figlio di Roma grande, forte e bello, a sinonimo di infantilismo un po’ scemo. Come sorprendersi perciò se, fra chi stima il Capitano, il soprannome sia ormai messo al bando?
DA ROMA AL MONDO – D’altronde, Roma ad un certo punto a Totti è diventata stretta. Il ragazzino talentuoso che Carlos Bianchi voleva spedire alla Sampdoria e Carlo Mazzone mandava via dalla sala stampa per non sovraesporre la sua classe cristallina e il suo eloquio «in progress», dopo il cucchiaio a Van der Sar nell’Europeo 2000 (prima data spartiacque) e lo scudetto storico del 2001 (seconda) è l’Italia intera che comincia ad appropriarsene. Un simbolo forse un po’ naif, ma con un cuore grande così. C’è pero da superare un ostacolo: il preconcetto culturale. «Ma sicuri che sia intelligente?». E Totti, con la regia proprio di Costanzo, lo è così tanto da trasformare il suo apparente punto debole, in uno straordinario successo. Ci riferiamo ai libri di barzellette che lo vedono protagonista nello scomodissimo ruolo di tonto, come i carabinieri di una volta (ci perdoni l’Arma). Ne nasce un trionfo editoriale, con code video che sdoganano il capitano della Roma mediaticamente. Il passo successivo si chiamano spot pubblicitari, doppiaggi di cartoni «cult» come i Simpson, apparizioni a Sanremo e persino la creazione di una linea di moda officiata insieme alla moglie Ilary Blasi, reginetta televisiva. Il loro matrimonio (in diretta tv) santifica il punto di partenza del Tottismo nella sua forma più epidermica – cioè quella che precede la malattia o la filosofia – ovvero nel connubio tra calcio e piccolo schermo. Totti ormai è diventato spigliato davanti alla macchina da presa, ma per renderlo familiare c’è anche un altro dato: il suo non è una matrimonio vip all’insegna della sola carriera, perché Francesco e Ilary mettono al mondo figli (per ora tre) proprio come l’impiegato del piano di sotto.
L’INFORTUNIO E L’AMORE – Resta solo un ostacolo al totale sdoganamento: il tifo calcistico. A collocarlo nel cuore di tutti ci pensa il destino. Il grave infortunio del 2006, quello che corre il rischio di fargli perdere il Mondiale, lo rende come Ulisse, «bello di fama e di sventura». L’Italia si stringe a coorte, la clinica dove soffre diventa meta di pellegrinaggio persino del premier Berlusconi e – doviziosamente illustrato da un documentario – il miracolo avviene. Totti recupera, vince addirittura il Mondiale 2006 con una placca d’acciaio nella gamba e l’anno successivo, a quasi 31 anni, alza addirittura la Scarpa d’oro come miglior cannoniere europeo. Potrebbero essere i titoli di coda, invece è solo l’inizio di uno sfolgorante, ingombrante tramonto che solo in questi giorni scopre l’eclisse delle polemiche. Proprio Spalletti, l’allenatore del suo splendido trentennio, adesso è quello che beffardamente lo sta indirizzando verso l’uscita, sottraendogli di fatto il traguardo di calcare il campo fino a 40 anni e prendendosi persino il lusso di evidenziarne i vizi privati (il gioco) per appannare le pubbliche virtù (i gol). Ma tutto questo, oltre alla inevitabile malinconia legata alla giovinezza che passa (quella di Francesco, ma anche la nostra), lascia addosso una sensazione robusta: Totti e le sue magie staranno anche per diventare materiale d’archivio, ma il Tottismo – come malattia, filosofia o semplice fenomeno di costume – non terminerà mai, non fosse altro che nel rappresentare la pietra di paragone per l’«ismo» che verrà. Tutto sommato, un risultato eccezionale per quel ragazzo di via Vetulonia che sognava di diventare benzinaio e si è ritrovato ad essere lui carburante dei sogni.