I nostri mister: Garbutt il primo

I nostri mister: Garbutt il primo

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IL ROMANISTA (M. IZZI) – William Garbutt, ha scritto che il primo Mister ufficiale della storia della Roma (per poche settimane la neonata Lupa venne guidata dalla coppia King-Piselli) «non ammetteva ritardi agli allenamenti, era severo, odiava le liti nello spogliatoio. La sua carica umana dava al team un’atmosfera familiare». Quando “Willy” arrivò a Roma non era un allenatore, era “l’allenatore”, anzi il “Mister” per antonomasia. Incarnava quell’idea di grandezza, di successo, che la società giallorossa aveva deciso d’inseguire con tutte le sue forze. Per quello che riguarda la sua ossessione per la puntualità, poi, mi fece sorridere, qualche anno or sono, scoprire che una nota casa d’aste inglese aveva messo in vendita uno dei suoi amatissimi orologi, un Longines d’oro, con un’iscrizione incisa in rosso e blu sul retro, dove si leggeva: “Genoa Cricket and Football Club, i soci a William Garbutt 1914”. Quasi certamente si trattava dello stesso orologio che il nostro aveva al taschino dirigendo la prima sgambata romana al Motovelodromo Appio. Dal 1927, però, il Longines di Garbutt ha visto passare un mucchio di tempo… fino a segnare l’ora di Alfred Schaffer, il grande stratega dello scudetto del 1942. Dopo aver sfiorato il titolo mondiale alla guida dell’Ungheria nel 1938, Schaffer arrivò in Italia con quel pizzico d’incoscienza e di mancanza di rispetto per le vecchie gerarchie, che gli permise di pianificare la conquista dello scudetto. Pragmatico, schietto, perennemente fasciato da un tutone rosso, Schaffer aveva la battuta pronta. Amadei ricorda ancora quando in allenamento si esibiva in qualche rovesciata e il tecnico sorridendo gli chiedeva: «Ameteo, ma tu zai dofe finire palla quanto colpisci in rofesciata? Perché se tu non zai perché tu fai rofesciata?». Allenatori che hanno fatto la storia della Roma trionfando e anche meteore, che pure sono state capaci di brillare. Non posso dimenticare, ad esempio, Luigi Brunella, che conobbi nella sua tardissima età. Sedette sulla panchina della Roma a più riprese, tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50. Venne addirittura chiamato a rilevare il divino Fulvio Bernardini, centrando sempre gli obiettivi che gli venivano affidati. Faceva bene, ma era “troppo giovane” e non era un personaggio carismatico: «Un giorno – mi disse Luigi – vennero da me e mi dissero: “Ti ringraziamo, ma dobbiamo prendere un allenatore vero”». Era un gentiluomo Brunella e abbandonò il calcio professionistico per sempre. A metà degli anni 60 toccò allo spagnolo Mirò, anch’egli con dei trascorsi al Barcellona… l’altro colpo di frusta sulla panchina della Roma venne però garantito da Helenio Herrera. Il “Mago” compì il suo più grande gioco di prestigio strappando un contratto da nababbo in cui tutto (telefono, casa, consulenza fiscale per la realizzazione della dichiarazione dei redditi, l’automobile, i biglietti aerei per i viaggi di piacere… e tanto, tanto altro) era sul conto spese dell’AS Roma. Nel 1979, sarà Dino Viola ha riportare nella capitale Nils Liedholm, il più grande tecnico della storia del calcio mondiale. Insuperabile nello stile, imbattibile per intuizioni e capacità di scoprire e far crescere i giovani. Un cultore del paradosso che diceva ai suoi ragazzi: «Attenti quando segnate. Non esultate troppo, ricordatevi che avete perso il pallone». Di svedese, purtroppo, c’è stato anche Eriksson, uno che, mettetela come volete, alla Roma ha regalato solo amarezze. Del resto, il rettore di Torsby fu capace di mandare via Cerezo per Bergreen, spedendo in panchina Ancelotti e Bruno Conti. Tra i tanti nomi che attraversano gli anni 90 c’è anche Carlo Mazzone. Carletto a cui Fulvio Bernardini, un bel giorno fece il regalo più bello parlando a Coverciano ad una riunione dei tecnici di serie A: «E’ inutile che andate in Olanda a studiare l’Ajax. Risparmiate il viaggio e andate a vedere la squadra di Carlo Mazzone». Ci fu poi il “Boemo”, che il tifoso della Roma ha “tatticamente” odiato o adorato, ma che tutti, indistintamente, hanno rispettato per l’immensa dignità con cui ha saputo sempre opporsi al sistema degenerato e disonesto che governava il calcio italiano. Zdenek (a lui Antonello Venditti ha dedicato una canzone, non proprio l’ultimo degli onori), venne rilevato dal “mascellone” o, come veniva definito dai suoi giocatori “il tedesco”, Fabio Capello. Quando allenava la primavera del Milan, metteva in difficoltà anche la prima squadra allenata da Liedholm, un predestinato insomma e, al di là di tutto, un grande tecnico che ha contribuito a scrivere l’avvincente romanzo della Roma del terzo scudetto. C’è poi la Roma di Spalletti, che nonostante quelle di Ranieri e Montella, forse finisce definitivamente negli annali della storia solo oggi, con la rifondazione americana e una Roma che guarda alla Spagna per scorgere il suo futuro.

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