I Sensi la Roma, emozioni e trionfi

I Sensi la Roma, emozioni e trionfi

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CORRIERE DELLO SPORT (A. MAGLIE) – Forse è sbagliato dire che la storia si sia chiusa ora. La storia si è chiusa in una notte di agosto. Roma avvolta nelle tenebre, quella stanza del policli­nico Gemelli avvolta nel dolore. Era il 17 agosto del 2008 quando la sorte tranciò l’ultimo esile filo che legava Franco Sensi agli affanni terreni. Lui si portò dietro quindici anni di storia, quindici anni di passione, anche di po­lemiche. Quel che è avvenuto dopo è stato un prolungamento che non ha mai dato il senso di qualcosa di stabi­le, di consolidabile, di definitivo. Ro­sella Sensi ci ha messo l’impegno, la passione, l’amore, l’entusiasmo, se­guendo il solco del padre Franco: il co­raggio, la voglia di buttare il cuore oltre l’ostacolo, quella grin­ta infinita. Ci sarebbe­ro voluti soprattutto i soldi ma la Famiglia non ne aveva più. Li aveva «bruciati» il Pa­triarca (70 miliardi di lire per Batistuta, 55 per Cassano) nell’inseguimento di quella sorta di aquilone che era la squadra di calcio, raccolta in condi­zione pietose da mani impietose, quel­le di Ciarrapico. «Ho preso un cadave­re » , spiegava Franco Sensi.

LA SCALATA – Sì, questa storia non si è chiusa adesso, con una transazione, tra carte bollate, costruzioni legali e obblighi di Borsa da rispettare. Que­sta storia è terminata quando il «Ti­moniere » è uscito di scena, chiudendo la parentesi presidenziale più lunga: dall’8 novembre del ‘93 al 17 agosto del 2008, anche se era già entrato in società nel maggio ‘93 con l’impren­ditore Pietro Mezza­roma. Quindici anni, un tempo straordina­rio per lunghezza in una città che «brucia» tutto pur essendo abi­tuata a raccontare la sua storia attraverso secoli e millenni. Co­sa resterà di questa lunga gestione proprietaria? Cosa si dirà dei Sensi di qui a dieci, venti anni? Chi oggi com­pra la Roma (cioè l’americano Dibe­nedetto da non confondere con quello straordinario americano romano in­terpretato da Alberto Sordi) compra qualcosa di più di una semplice squa­dra di calcio.

Forse si dovrebbe applicare ai gial­lorossi lo stesso motto che usano i ca­talani per il Barcellona: «Més que un Club», più che un club. Un’idea, un momento di identificazione collettivo e popolare, un sogno, un cuore, uno stato d’animo, un Sentimento. Chissà se questi proprietari che non vengono da Roma saranno in grado di capire e apprezzare quanto questa storia di calcio sia radicata in un territorio e quanto i confini di questo territorio siano immateriali, emotivi, romantici. Con tutte le esasperazioni e le esage­razioni che questo comporta e di cui, in qualche maniera, questa lunga pa­rentesi proprietaria che si chiude ora è rimasta vittima. In principio era «Sensi Bla Bla Bla» : grandi acquisti e grandi obiettivi annunciati ma realiz­zazioni molto più piccole.

I SUCCESSI – C’era il peso di quel «ca­davere » a creare sporporzione tra am­bizione e realtà. Una contraddizione non facilmente sanabile se non a costo di accumulare altri pesi, altri ritardi. Col tempo, quella storia, quella fase verrà letta meglio, in maniera più accorta ed equilibrata, fuori dalle passioni quoti­diane che nel calcio stravolgono la realtà. Trentamila persone dissero addio a Fran­co Sensi, in un giorno d’agosto caldo e appic­cicoso. Non era solo l’ultimo saluto a un uomo, era il sipario che calava su una fase storica. Poi si potrà discute­re se in quella fase la Roma abbia vin­to molto o molto poco. Forse potevano essere due, gli scudetti. Ne è arrivato soltanto uno. Ma in anni difficili, in cui tutto era condizionato. Lo sapeva bene Franco Sensi che forse troppo tardi decise di lanciare l’assalto al Palazzo dopo aver sperato di poterci entrare accolto dagli occupanti di sempre tra squilli di tromba e rulli di tamburi. Ma gli «occupanti» lo volevano «disinne­scare » non cooptare. Lo utilizzarono per rendere individuali i diritti televi­sivi ma poi lo «esclusero» dalle tratta­tive con Telepiù tanto da indurlo a creare Stream; gli offrirono a garanzia il doppio de­signatore convincen­dolo che il sabaudo Pairetto lo avrebbe messo al riparo dallo strapotere della Juve Giraudian-Moggiana. Grandi batta­glie trasformate in grandi autogol.

LE BATTAGLIE – Lo spingevano verso il tavolo del Consiglio Federale ma nel frattempo spostavano il potere dalla Federazione alla Lega, da Roma a Mi­lano. In pratica, gli indicavano un tra­guardo e nottetempo glielo spostava­no: un gioco di prestigio che sfibrava, creava tensioni, produceva delusioni. Si parlava di garanzie arbitrali e spun­tavano due designatori: una illusione ottica perché tutti e due rispondevano ai richiami della medesima foresta e non era quella della Pineta Sacchetti, non molto lontana da Villa Pacelli. Due supercoppe, due Coppe Italia: non sono stati diciotto anni buttati; so­no stati diciotto anni combattuti, tra­vagliati, sofferti. Dentro un mondo del calcio che cambiava pelle mentre le forze fisiche ed economiche del presi­dente Sensi diminuivano. Di sé dice­va, Franco Sensi: «Sono l’ultima espressione della cultura orale del calcio romano».

La Roma che passa di mano da quella «cultura orale», da quel raccon­to tramandato come la passione per una sciarpa a due colori, «gialla come er sole, rossa come er core mio». do­vrà, comunque, ripartire. Perché è la stessa di Dino Viola, raccontata ed espressa in forma diversa. E sebbene tra l’uno e l’altro filone culturale ci sia un intervallo di un paio di anni sui quali è meglio far ca­dere il velo dell’oblìo, un filo rosso li lega, li tiene insieme in ma­niera quasi indissolu­bile. Erano stili diver­si. Elegante e criptico l’Ingegnere nei suoi tortuosi interventi dialettici, tanto diret­to, a volte brutale Sensi (resterà negli annali, un memorabile «inseguimen­to » nella sala delle conferenze dello stadio Olimpico «ai danni» di Galliani; resteranno nella memoria alcuni vi­vacissimi litigi con Giraudo nel bar della Lega)), con quel suo intercalare romanesco. Il fisico asciutto del pri­mo, la tozza e salda robustezza del se­condo. La Roma degli ultimi trent’an­ni ha il volto di questi due protagoni­sti, la passione che hanno acceso in una città che di passioni vive.

Personaggi facilmente identifica­bili. Certo, Viola non era romano ma viveva la realtà romana. Anche Sen­si aveva a Visso, nelle Marche, forti radici, ma viveva la Roma come una mis­sione, una missione e una «malattia» eredi­tate da papà Silvio, uno dei fondatori del club, uno dei fornito­ri delle assi di legno su cui venne edifica­ta la leggenda di Testaccio. Il calcio in Italia è abituato a identificarsi: il Milan è Berlusconi, l’Inter è Moratti, la Juve è Agnelli. Il calcio che cam­bia è fatto di investitori che arrivano dall’estero: il russo Abramovich, gli arabi del Manchester City, l’ameri­cano del Manchester United, il bosto­niano della Roma. Il calcio globale è oggetto di transazioni globali, tran­scontinentali. Il vincolo non è più con gli uomini ma con i colori. Eppure era rassicurante per i tifosi pensare a una Roma di Sensi o di Viola. Biso­gnerà vedere come la nuova proprie­tà, più impersonale e meno identifi­cabile, verrà vissuta e apprezzata dai tifosi.

IL LEGAME CON TOTTI – Un processo di identificazione rafforzato dalla pre­senza in campo di un giocatore-sim­bolo, Francesco Totti, non a caso defi­nito da Sensi «il mio unico figlio ma­schio ». Quell’unico figlio maschio era il prolungamento in campo delle bat­taglie del presidente. Sensi ha dato un ruolo alla squadra, l’ha sistemata sta­bilmente nel circolo delle Grandi ed è riuscito a tenerla in quel circolo an­che quando è entrato in crisi il cam­pionato delle Sette Sorelle. A costo di enormi sacrifici, come dimostrano le difficoltà finanziarie che hanno deter­minato quest’ultimo e definitivo colpo di scena. Avrebbe avuto bisogno di più tempo, il presidente. Avrebbe forse avuto bisogno di vincere, agli inizi del terzo millennio, la bat­taglia di Lega. Ma le forze cominciavano a scarseggiare, la salute diventava sempre più precaria. Apparivano incrollabili i suoi av­versari. La montagna di debiti sempre più alta, sempre più diffi­cile da scalare. Lui ci ha provato: la cessione delle quote di Aeroporti di Roma, del parcheggio di Corso Fran­cia, dell’area della Laprignana, del Corriere Adriatico, dell’hotel Cicero­ne. Niente da fare. Per salvare il sal­vabile firmò (la firmò la figlia, Rosel­la) la pace con i «nemici» di sempre, Giraudo e, soprattutto, Moggi, l’uomo che aveva allontano dalla società e che si era vendicato portandogli via Paulo Sousa e Ferrara); un altro Moggi, Alessandro, tornò a calpestare i prati verdi di Trigoria. Per poco. Era il se­gno che l’Autunno del Patriarca stava scivolando verso l’inverno.

E se calciopoli fosse esplosa prima? Forse le cose sarebbe­ro andate diversamen­te. Probabilmente alla figlia Rosella avrebbe lasciato un’altra situa­zione. Ma con i se, i ma e i forse non si fa la storia. E la storia si chiude qui, formal­mente poco meno di tre anni dopo quella triste notte. Diciotto anni, oltre tre lustri: un periodo ampio, tra luci e ombre, alti e bassi; a volte appassio­nante, altre volte deludente. Ma mai monotono, mai anonimo. Esce di sce­na la Famiglia Sensi con l’orgoglio di lasciare nelle mani dei futuri proprie­tari una società forte nell’immagine, accompagnata da una considerazione diversa rispetto a quella che aveva nel maggio del ‘93, dopo due anni di in­successi in campo e, ancor peggio, fuori dal campo. Perché i Sensi hanno vinto e hanno perso, hanno compiuto scelte giuste e preso strade sbagliate, ma quella maglia, quei due colori non li hanno mai insultati.

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