SABATINI: “Con Pallotta c’è scollegamento, non sono commissariabile. Grande sintonia con Spalletti....

SABATINI: “Con Pallotta c’è scollegamento, non sono commissariabile. Grande sintonia con Spalletti. Totti? Sue giocate irripetibili ma gli ho detto di smettere…”

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La Gazzetta dello Sport (M. Cecchini) – Dalla scrivania si vede una piccola targa con un uomo anziano che sorride. C’è una frase che galleggia al lato della sua testa: «Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro, solo per aiutarlo a rimettersi in piedi». Un programma ambizioso e forse per questo dispera­to, come tanti degli spiriti che affollano le parole di Walter Sabatini, che cerca anche nel sorriso ghiac­ciato di quell’uomo – Gabriel Garcia Marquez – la chiave per una serenità irraggiungibile. I «Cent’an­ni di solitudine» sono nella sua testa, nel corpo af­fascinato dall’autodistruzione, nonostante la vul­gata corrente lo racconti come il re del mercato ita­liano. A 61 anni, in fondo, è possibile che abbia sco­perto come – tra mascalzoni, magia, talenti, sesso e delusioni – il calcio sia la sua Macondo, ogni giorno spazzata via senza rimpianti.

Sabatini, come ha scoperto questo libro?
«Grazie a un soggetto fuori dal si­ stema come Paolo Sollier, con cui nei primi anni Settanta ho gioca­to nel Perugia. Era un comunista, uno che metteva la politica prima del calcio e faceva scelte conse­ guenti, e per questo era conside­rato un reietto. Io avevo una cul­tura scolastica, un giorno invece arriva Sollier con questo libro e mi dice: “Leggilo”. Lo cominciai e rimasi folgorato fin dalla prima frase»

Lei quando ha scoperto il ghiaccio?
«Devo ancora scoprirlo, forse. Però ricordo come a 9 anni mio nonno Livio, che lavorava alla fornace di Marsciano, vicino a Perugia, un giorno mi parlò di Gianni Rivera, un ragazzino bravo a giocare al calcio. Lui non lo aveva forse mai neppure visto, ma mi incuriosì abbastanza per farmi fermare una do­menica davanti alla tv e abbandonare per sempre i miei giochi di indiani e cowboy. Da quel momento pensai solo al pallone. I miei non volevano che gio­cassi perché rovinavo vestiti e scarpe e così, per scoprirmi, mi toccavano la schiena per vedere se avevo sudato. Io allora, prima di tornare a casa, da folle mi esponevo di schiena alla tramontana di Pe­rugia per farmi asciugare addosso il sudore. Così li convinsi a portarmi alla Juventina, dove si favoleg­giava di un certo Antognoni che sapeva colpire uno spago all’incrocio dei pali. Fu l’inizio. Della felicità e dell’autoflagellazione».

Josè Arcadio sopravvive anche grazie a prestazioni da superdotato: lei che rapporto ha col sesso?
«A me il sesso ha salvato la vita. Lo vedo da tutte le parti. Il gol ad esempio è penetrazione. Ho sempre fatto sesso disperato, quello che uno fa per attutire un dolore. Il problema degli uomini è ormonale. Quando si acquietano gli ormoni viene meno l’avi­dità, l’arroganza. Io speravo che i miei si tacitasse­ro un po’ più in fretta, invece niente. Il sesso ti fa fare cose in eccesso e aiuta a tollerare il resto. An­cora oggi non riesco a sopportare una sconfitta».

Il contrario del colonnello Aureliano Buendia, «che promosse 32 sollevazioni armate e le perse tutte». In fondo anche lei non ha mai vinto davvero.
«Io sono come lui, che non perde perché fallisce le insurrezioni ma perché diventa solo e cattivo nella solitudine. La mia è una condanna fatta di numeri e stati­stiche, poi certo ci sono anche al­tri parametri. Ma alla Roma que­sto problema lo sento nelle visce­re».

Il colonnello sopravvisse a 4 attentati e a 73 imboscate: a lei quante ne hanno fatte?
«Parecchie, ma ne capisco anche il motivo. Sono un cultore dell’amicizia silenziosa, non la coltivo. An­che mio fratello, a cui voglio un bene infinito: sono capace di non sentirlo per tre mesi. Se una telefonata va oltre i 15 secondi non la considero sana».

Supponiamo che tra gli attentati considera anche la squalifica del 2000: 5 anni complessivi, con propo-sta di radiazione per tratta di minori.
«Fu una cosa politica disgustosa. Chi ha svolto le indagini sa come sono andate le cose, per questo poi credo mi abbiano lasciato fare il mio lavoro fin­gendo di non vedermi. Il colonnello Martino della procura federale fece un lavoro serio e mi disse di stare tranquillo. Pensi che durante le indagini ero così sereno che chiamavo Massara perché facesse da traduttore col 15enne ivoriano, che tra l’altro non presi io e anzi chiesi al procuratore di venirselo a riprendere perché non era bravo. Visto che quello rimandava, al ragazzo davo io i soldi che potevano servirgli e così mi hanno anche accusato di volerlo corrompere per acquisire vantaggi futuri».

Però si disse pure che il ragazzo dormiva nel sottoscala di un ristorante, che era scappato e trovato dalla polizia sotto un ponte.
«Ma non era vero, dormiva all’ostello della gioven­tù. Fu una aberrazione per compiacere la politica, visto che il ministro Melandri stava facendo una campagna contro il lavoro minorile. Dopo la prima squalifica di un anno e mezzo, quando arrivò il ri­corso di Porceddu, l’accusatore, capii che ero fini­to. So che l’onestà non si autoproclama, ma io sono un uomo di grandi principi».

Be’, quasi tutti i colpevoli si dichiarano innocenti.
«Lo so, ma le assicuro che ho pagato un conto per altri. Mi hanno defraudato della vita stessa. Però quello dei ragazzi è un problema reale del calcio e i primi ad alimentarlo sono i genitori avidi. Però grazie alla squalifica sono diventato bravo. Vedevo 18 ore di calcio al giorno, tenevo gli occhi aperti con gli spilli per non dormire, conoscevo qualsiasi giocatore al mondo».

Non si è mai vergognato di infrangere la legge lavorando da squalificato?
«No, mi sono solo ripreso una piccola parte di quel­ lo che mi hanno tolto».

Il colonnello Buendia diventò più scontroso e tentò anche il suicidio: lei ci ha mai pensato?
«Io mi suicido tutti i giorni. Ho sempre avuto poco rispetto per la mia vita. Prima per una sorta di ado­razione delle mie capacità psicofisiche. Pensavo di poter far tutto e lo penso ancora oggi, tant’è che sono un suicida senza successo».

Amaranta rifiuta Crespi, e vivrà sempre col rimorso: il suo più grande?
«Penso di non esser stato bravo ad amare le perso­ ne. Qualcuna avrebbe meritato qualche carezza in più, prima di tutto mia madre Lina. Io invece ho macerato tutto dentro».

A proposito di sensi di colpa, per Garcia ne ha avuti, visto che aveva detto che gli «schizzi di sangue» non sarebbero stati i suoi?
«No, ho cercato di proteggerlo. Molti mi accusano di aver perso tempo. Forse, ma ricordo che in un mo­mento di grande successo per lui non ha voluto tra­dire la Roma. E poteva farlo».

A un certo punto a Macondo arrivano gli americani. Belle case, ferrovia, però si perde la poesia: è capitato anche alla Roma?

«Io non ho perso la poesia, ma il mio modo di pensa­ re al calcio è diverso dal loro. Per me il pallone è una sfera magica, l’Aleph di Borges, ci vedo l’universo intero, mentre altri notano solo la sfera di plastica. Vede, io una volta ho giocato con Sivori. Ero in va­canza a Fregene e trovai uno che organizzava una partita benefica con vecchie glorie, attori e cantan­ti. Accettai con noia, ma poi spuntò Omar. Aveva poco più di 40 anni. La sua non era tecnica, era ma­ gia. Lo vedevo con le mani sui fianchi, pronto a in­ sultare chi non gli avesse consegnato subito la palla. Un genio. Ecco, questo è il mio calcio».

Ma lei, uomo di sinistra, che ci fa con una proprietà Usa? È l’unico dirigente rimasto del nuovo corso.
«E un po’ me ne vergogno. Io ho il cervello di sini­stra e il corpo di destra, sempre in conflitto. Tante cose le ho fatte per il corpo. Loro sono investitori, poi però tocca a noi. Ma si deve essere di sinistra sempre, nel calcio come nella vita».

Eppure si dice che la maggior parte dei calciatori è di destra.
«Non sono di destra, sono qualunquisti. Il calcio at­trae vanità, perché intorno al calcio ci sono nani e ballerine. Diventa una patologia, ti fa pensare che sia importante solo un calcio d’angolo».

Mr. Brown promette concessioni alla fine della pioggia, peccato passino 5 anni. Gli stessi che voi avete utilizzato senza vincere niente.
«Non è andata proprio così. Qui è mancato un tro­feo, però bisogna riconoscere che la Roma è società patrimonializzata ed è al terzo anno di Champions. È stato fatto un lavoro virtuoso che viene ricono­sciuto in Italia e all’estero, ma non a Roma per rab­bia e frustrazione».

Però lei con Pallotta che c’entra? Non resta certo per lo stipendio.
«Anzi, altrove potrei guadagnare di più. Il primo febbraio con una mail ho chiesto al presidente di lasciarmi libero perché ho percepito – e lo percepi­sco tuttora – uno scollegamento tra me e lui… Mi scusi, non posso andare avanti su questo argomento. Non posso rompere oggi, abbiamo traguardi da raggiungere. Lo farò quando sarò a posto con la mia coscienza. Comunque io non ho mai parlato di di­ missioni. In un primo momento lui aveva accettato, poi ha cambiato idea. Per un certo momento mi so­no sentito un prigioniero, negli ultimi tempi però ho trovato tante persone che mi hanno aperto gli occhi nell’individuare i problemi, le potenzialità. Mi hanno dato speranza. Una cosa però è certa: questo è il mio ultimo anno alla Roma e io continue­rò a fare il d.s. alla mia maniera. Non sono commis­sariabile».

Lei ha reso ricchi per generazioni intermediari e procuratori rozzi e amorali: non la imbarazza?
«Alcuni, non tutti, ma non mi imbarazza. Sono stru­menti di lavoro. Trent’anni fa, quando c’era solo Ca­liendo, io dicevo a un mio presidente: “Non puoi andare contro la storia”. I procuratori sono un male necessario».

Sa bene che su di lei e alcuni agenti girano voci di mazzette nelle transazioni.
«Lo so e mi inquieta, ma senta, non permetto a nes­suno di offrirmi neanche un caffè. So che il mio me­stiere comporta il rischio di accuse cariche di fru­strazioni, ma non mi interessa. La corruzione è del mondo, a volte è stata benedetta perché ha imple­mentato nella storia la costruzione degli Stati. Io non sono una mammoletta, ma considero normale l’onestà».

Al netto dei reati, si dice che lei abbia creato una rete di d.s. amici in stile moggiano.
«Nel calcio si va a mode. Ora tanti pensano che io sia bravo – e forse lo sono – e così adesso c’è chi mi chiede dei consigli, ma non ho mai raccomandato nessuno, neppure mio fratello. La rete che spesso ipotizzano è virtuale, Calciopoli invece è stata una cosa vergognosa, ha spostato scudetti, ma ci sono sentenze che ormai la descrivono. Oggi il calcio è malato di altre cose, le scommesse prima di tutte».

Dei circa 70 giocatori che ha preso in questi 5 anni, quanti erano da Roma? Il 50%?
«Forse anche meno, ma in quel momento c’era una logica. Mi accusano di non prendere italiani, ma dove sono quelli bravi a cifre abbordabili? Occor­rerebbe cambiare il sistema, che invece è stantio. A Roma la gente i calciatori a volte li sbrana».

Lei però, da esteta del calcio, è diventato l’uomo delle plusvalenze: le hanno rubato l’anima?
«No, ma mi hanno complicato la vita. Comunque il talento fine a se stesso diventa un vizio, io do­vevo far coincidere le cose e in parte ci sono riuscito».

È vero che è lei che impone i giocatori ai tecnici?
«Io li propongo, ma li condivido con l’allenatore. E poi con Spal­letti c’è sintonia. Siamo entrambi due disturbati psichici dalla vita».

Se non fosse stato costretto a cedere i migliori, la Roma avrebbe già vinto qualcosa?
«Questo non glielo dirò mai».

Macondo alla fine muore anche per mancata evoluzione. È un po’ quello che c’è nel rapporto tra la Roma e Totti?
«A Francesco ho sempre parlato con affetto. Gli avevo detto: “Smetti”. Lo penso ancora oggi, però ora che farà il contratto cre­do abbia una grande occasione: avrà un anno cuscinetto per lavo­rare su se stesso».

È parso però che Spalletti avesse un risentimento antico verso Totti.
«Certo che in lui c’era una quota residuale di uno stato d’animo che era maturato in passato, ma Spalletti voleva imporre un modo di essere e ci è riuscito. Ora si so­no risintonizzati. Certo, la sinto­nia sarà stentata, ma occorrerà l’intelligenza di entrambi. Lucia­no ha avallato l’ok al contratto, ma Francesco dovrà essere gene­roso con i compagni. Io ipotizzo un Totti nuovo, pur facendo an­cora qualche altra prodezza. Per­ché una cosa è sicura: pur essen­do un campione Totti non è stato nell’Olimpo, ma le sue giocate non si vedranno più su un campo di cal­cio. Non ha vinto Palloni d’oro o Champions, però i suoi colpi saranno chiusi in un libro e non saranno più riproposti da nessuno».

E allora chiudiamo anche noi il nostro libro, mentre Sabatini ci sussurra: «Questa intervista potrebbe es­sere il mio testamento spirituale, anche se altri due o tre mesi conto di viverli, nonostante sigarette e caffè (15 al giorno, ndr)», e ammicca sorridendo. Ma è un attimo. Il telefonino che squilla gli fa cam­biare l’espressione del viso. Gli spiriti prendono di nuovo possesso di corpo e mente. La sua Macondo è perduta ancora una volta.

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